Lama Denis: Lo Yoga della divinità come alchimia spirituale
È questo il secondo articolo sul vajrayana, tradotto dalla rivista “Dharma” (n. 9/90) dell’Istituto Karma Ling di Arozllard (Savoia).
1. Il vajrayana è uno sviluppo del Mahayana di base o Paramitayana, pratica delle sei paramita o perfezioni (v. Paramita 38, p. 12); la motivazione comune ai due sentieri è il bodhicitta, che peraltro nel vajrayana è praticato con maggiore intensità. Il vajrayana (letteralmente: veicolo di diamante) è scelto in quanto metodo ritenuto potente e rapido; ma chi vi si impegna, oltre a possedere una buona preparazione ed eccezionali capacità, deve essere animato da una aspirazione altruistica cosi forte da non poter sopportare che per tutto il tempo necessario alla realizzazione del proprio risveglio gli altri esseri continuino a trasmigrare e a soffrire nei sei mondi. La principale motivazione del praticante è di essere quanto prima in grado di aiutare gli altri a realizzare il risveglio.
La via del vajrayana comporta un perfezionamento della esperienza di vacuità che si è realizzata con il paramitayana. L’esperienza della vacuità fatta da un principiante, imperfetta e limitata, può darne un’idea scialba, che conduce a concepire le forme come vuoto, nient’altro che vuoto.
La pratica del vajrayana fa invece maturare l’idea del vuoto come forma: si parte dalla vacuità e si incontrano nuovamente le forme, scoprendone il contenuto energetico e tutta la loro ricchezza, le loro qualità e potenzialità. La vacuità comporta un rapporto con l’energia, quale manifestazione di una dimensione dinamica, piena e vitale. L’esperienza della vacuità può consistere all’inizio in un semplice superamento delle illusioni per mezzo del nirvana.
Con il vajrayana in un certo senso il mondo delle forme viene inserito nel nirvana; è per questo che nella tradizione tantrica si sostiene l’indissociabilità del nirvana e del samsara, della forma e della vacuità.
Le pratiche di questa tradizione sono tutte basate sull’ alternarsi di vuoto e di forma: dalla forma si passa al vuoto e dal vuoto alla forma, per giungere infine al di là di vuoto e di forma. L’energia della vacuità si esprime nel vajrayana con la forma della divinità, quale metodo potente e profondo che utilizza la visione simbolica della divinità per realizzare il contatto con l’energia della vacuità. La pratica costante di questa visione aiuta a colmare gradualmente quel distacco dalla nostra natura risvegliata che ci mantiene separati dalla divinità.
Il vajrayana non è l’unico sentiero per realizzare il Risveglio, ma, da un punto di vista pedagogico, il suo approccio è più efficace di quello del mahayana, molto più rapido e dinamico, capace di trasformare la stessa forza delle illusioni in un motore della pratica. Alcuni pensano che il vajrayana sia riservato a chi riesce a visualizzare le divinità e le loro pure dimore, ma esso è utile a tutti coloro che, con una buona preparazione, se ne sentono attratti, perché la recettività è un fattore determinante.
La sua pratica può essere respinta solo da chi non è in grado di comprenderla: non è una pratica razionale come l’hinayana o il paramitayana e determina una svolta che il nostro intelletto ordinario non riesce a valutare e ha bisogno di una certa fiducia, senza la quale non è possibile servirsi dei mezzi che ci vengono messi a disposizione.
Quando questa fiducia non è innata (e di solito non lo è), si può acquistarla con le pratiche dell’hinayana e del paramitayana: samatha, vipassana, ton-len (dare e ricevere, v. Paramita 40, p. 9, ndt) e le paramita. E uno sviluppo naturale.
2. È caratteristico del vajrayana lo stabilirsi di un rapporto personale con una divinità e, nel contesto delle energie spirituali, questo è molto più dinamico ed efficace di un rapporto impersonale. La divinità è l’aspetto puro della mente, la natura divina di cui ogni persona è dotata nel più profondo della propria mente; è essenzialmente la natura ultima della mente, considerata nella sua pienezza piuttosto che nel suo aspetto di vacuità. Il vuoto delle illusioni ha come corollario la pienezza delle qualità risvegliate; è un “vuoto-pieno” o una “pienezza vuota”.
Nel tantra questa pienezza è definita “Chiara Luce della mente”. L’essenza della divinità è questa Chiara Luce, che è pienezza della mente pura, liberata dai veli e dalle illusioni contingenti; la natura ultima della mente è accessibile alla mente concettuale ordinaria di un principiante soltanto attraverso la rivelazione, tramite una manifestazione simbolica. È necessario avere le idee chiare su questo tipo di meditazione, noto come lo “yoga della divinità”, caratteristico del vajrayana. Il Buddhismo non è un insegnamento teista, le divinità non sono da considerarsi in senso antropomorfico, non hanno realtà individuale, non sono entità separate con una propria esistenza. La divinità altro non è che la mente stessa del meditante, ne è l‘aspetto puro. Quando l’ego del meditante è superato e non c’è più né l’io né “l’altro”, si realizza l’unione divina, oltre i vincoli della individualità e della dualità, pura plenitudine.
Ma facciamo attenzione ad evitare scogli e deviazioni che possono facilmente incontrarsi; dobbiamo distinguere bene fra pratica di una divinità e concetto di Divinità nel contesto di una visione teista nel senso corrente. La visione teista comunemente intesa è di solito correlata con l’ antropomorfismo nelle sue diverse espressioni: grossolana, sottile ed essenziale. L’antropomorfismo grossolano è proprio di chi immagina un Dio dalla lunga barba (ma anche senza barba), troneggiante nel suo paradiso sopra le nuvole. Non vale la pena di parlarne, tanto è evidente il semplicismo e il materialismo di questa concezione. Più pericoloso è l’antropomorfismo sottile, che si ha quando a un Dio si attribuisce non una forma umana, ma una autentica mentalità umana. Questo Dio non ha la figura fisica di un uomo, ma ne ha i sentimenti: agisce, prende iniziative, progetta, fa le sue leggi, giudica, castiga, ricompensa, ama, approva, disapprova. Ha tutte le caratteristiche di una mente umana liberata dalle abituali imperfezioni. Questa concezione porta a un percorso spirituale dominato dallo sguardo dell’Altro, a uno stato mentale indubbiamente dualistico nei confronti di una divinità grande: grande creatore, grande giudice, grande architetto. Ne discende sia un insegnamento rigidamente dogmatico e formalistico, conseguenza dell’adesione a una rivelazione accolta come verità indiscutibile; sia una condotta pratica ispirata da una morale di tipo giurisdizionale, con un grande legislatore che proclama la sua legge, un grande giudice che pronuncia le sue sentenze e le sue condanne; sia una mentalità condizionata dal senso di colpa. Nell’approccio teista, ci si aspetta di essere salvati, che Dio, l’Altra Entità, ci salvi; la realtà, la verità si trovano nell’Altro, là in alto, altrove, e si spera di essere salvati da Lui. L’antropomorfismo a livello essenziale si ha quando si attribuisce a Dio il dualismo conoscitivo umano, facendone una persona esistente; si attribuisce a Dio una identità che lo fa diventare “altro”. Questo antropomorfismo è l’esperienza dualistica di Dio. Considerando questa dualità come ineliminabile, si fa diventare assoluto quello che è relativo, il relazionismo dualistico, e se ne resta prigionieri. Queste considerazioni non vanno intese come una critica a questa o a quella particolare tradizione; stiamo invece criticando certe deviazioni, un certo “stato mentale teistico”, che, sia pure in grado diverso, è presente in tutte le tradizioni. Questo stato mentale consiste in una reificazione della divinità ed è una forma di materialismo spirituale. Le concezioni teistiche e nonteistiche possono anche incontrarsi a livello trascendente, ma ben al di sopra dell’antropomorfismo e del conseguente materialismo spirituale.
3. Nella prospettiva non-teistica del vajrayana:
– la disciplina è fondata sulla causalità delle azioni, il karma: da azioni positive deriveranno felicità e liberazione, da azioni negative sofferenza e condizionamenti morbosi; è una correlazione di tipo clinico;
– l’azione divina, l’attività risvegliata di un buddha, non ha mai all’origine intenzioni o concetti, ma impulsi spontanei.
La divinità del vajrayana non è mai un Dio, cioè qualcosa di “altro”. La natura della divinità è vacuità e la vacuità non è qualcosa di esistente. La divinità potrebbe essere identificata con Dio solo a patto di riconoscere che Dio non esiste ed un teista non potrà mai arrivare a tanto. Vacuità, peraltro, non significa inesistenza, ma assenza di dualismo, che comporta una presenza e questa presenza è la Chiara Luce, la natura della divinità.
Bisogna fare bene attenzione a non scivolare in deviazioni di mentalità teistica, perché ne deriverebbero grossi ostacoli lungo il Sentiero: l’impasto della cultura occidentale, laica o religiosa che sia, ci predispone a questa devianza. Il rischio è tanto maggiore in quanto qualche rassomiglianza superficiale può facilmente suscitare “dall’esterno” assimilazioni affrettate e ingannevoli. Questa è una delle ragioni per cui l’approccio al vajrayana presuppone il possesso di una sicura comprensione del Dharma: solo nozioni ed esperienze di base con la vacuità consentono di evitare gli scogli antropomorfici e garantiscono il retto incontro con la pienezza divina della vacuità.
Siamo da sempre portatori della natura di Buddha, di tutte le sue qualità, della sua realizzazione; questa natura non è qualcosa che si possa ricevere in dono, perché è già in noi, nel più profondo della nostra mente. Non è nemmeno qualcosa che dobbiamo costruirci da noi stessi, basta semplicemente scoprirla, abbiamo solo bisogno di risvegliarci ad essa. Quando praticate una divinità, non vi rivolgete a un altro, ma alla vostra natura risvegliata. Trattandosi peraltro di una natura che è estranea al nostro ego, è del tutto naturale (dal punto di vista dell’ego, che inizialmente è il nostro punto di vista) che sia immaginata come esterna a noi stessi. Ma si tratta di una esteriorità fittizia, che sarà infine superata nel non-ego non dualistico. L’ al-di-là non esiste che in relazione a un al-di-qua e soltanto dopo aver compreso l’irrealtà di un ego al-di-qua si può comprendere l’irrealtà di un al-di-là, pur chiamato trascendente. In altri termini, Dio non esiste che in relazione a un ego che ne è testimone e lo concepisce come “altro”. Ma poiché fondamentalmente l’ego non esiste, nemmeno Dio fondamentalmente esiste. L’al-di-là divino non c’è che in rapporto a un al-di-qua egotistico. Dal punto di vista del Dharma, il livello relazionale è sempre relativo; la realtà ultima è l’assoluto non-dualistico, che, necessariamente, è anche non-relazionale. Il termine tibetano per “divinità” è yidam-ghila o semplicemente yidam, che è sempre inteso sia in senso relativo che in senso assoluto. La divinità in senso assoluto è indicata in tibetano con la parola yeshe-pa; yeshe designa la conoscenza primordiale (v. Paramita 28, p. 27, ndt), che è propria della mente di un Buddha, immediata e non-dualistica. L’assoluto non dipende da nient’altro, è senza “l’altro”. Questa assenza di “altro” implica l’assenza di un “io”, perché “io” e “altro” sono interdipendenti. L’assenza di alterità nell’assoluto è in fondo sinonimo di non-dualità. Questa concezione coincide con la definizione che il “Madyamaka chento” dà della realtà ultima: “la perfezione assoluta senza nient’altro”. E poiché questa assenza di “altro” ha attinenza con i concetti mentali di “soggetto-oggetto”, questa definizione potrebbe esprimersi anche cosi: “la perfezione assoluta senza dualità”; ovvero: “l’assoluto non-dualistico”. Proprio così: l’assoluto non può essere che non-dualistico!
4. L’assoluto divino non è inquadrabile nelle categorie di spazio e di tempo alle quali siamo abituati. Non è localizzabile in qualche posto e partecipa della sfera della vacuità (sanscrito: dhannadhatu), dove non sono distinguibili periferia e centro; è onnipresente. Non rientra nemmeno nei nostri concetti di passato, presente e futuro, ma si colloca nella in temporalità, nell’eterno presente che è eternità. L’assoluto divino (cioè la mente pura e non-dualistica) si incontra soltanto nella esperienza della realizzazione immediata e diretta. È un’ esperienza indicibile, come il sogno di una persona muta; il linguaggio concettuale è inadeguato a descriverla. Per darme un’idea che sia comprensibile nella fase iniziale della pratica non si può che ricorrere ad una rappresentazione simbolica, che peraltro non è arbitraria, ma è frutto dell’esperienza di esseri realizzati, fa parte della loro realizzazione ed è come il ricettacolo della loro esperienza spirituale. La forma stessa del simbolo offre una prima idea di quello che si intende rappresentare al di là della forma: il simbolo come significante partecipa della stessa natura della cosa significata; la sua pratica trasforma la nostra mente, dove con gradualità fa emergere quello che il simbolo rappresenta. La forma della divinità infine sfuma e appare, nella sua trasparenza, la sua natura autentica al di là delle forme. In questa prospettiva la sadhana – che è la pratica della divinità – mette in moto un processo di trasformazione, una trasmutazione alchemica: un processo in cui non si tratta di acquisire qualcosa di nuovo, ma di trasformare l’esperienza di quanto era già in noi. Il piombo della nostra natura ordinaria diventa l’oro della natura di un Buddha; l’essenza metallica e la densità in un certo senso restano inalterate, ma c’è qualcosa di nuovo nella trama e nella struttura ed in questo consiste la differenza tra’ il piombo e l’oro, tra l’essere comune e l’essere risvegliato, La materia prima della trasmutazione è la nostra mente, siamo noi stessi. L’impegno è di trasformare la nostra condizione attuale, incatenata dalle illusioni; questa trasformazione fa emergere le qualità risvegliate della nostra natura profonda, che è natura di Buddha. L’origine delle nostre illusioni abituali sta in quel processo di determinazione, di identificazione con il quale siamo soliti individuare i fenomeni del mondo esterno e la nostra stessa interiorità come un “qualcuno”. Questa fissazione deriva dallo stato mentale da cui trae origine la nostra nascita. La visione illusoria è un prodotto delle nostre concezioni: questo è un punto di estrema importanza. E con l’attività concettuale che diamo origine al mondo ed a noi stessi come siamo soliti percepirlo e come ci percepiamo; sono entrambi un prodotto delle nostre identificazioni, delle nostre rappresentazioni. Su questa base, possiamo farci un’idea più adeguata di certi aspetti dell’operazione di trasmutazione che è stata avviata dalla rappresentazione della divinità come viene meditata nella prima fase della sadhana, che è la fase della generazione (v. Paramita 39, p. 10, n.d.t.). Si parla di generazione perché questa fase conduce alla presenza divina ricorrendo a immagini mentali. Si comincia col concepire la divinità in una certa forma, con un dato colore e particolari attributi ed ornamenti. In tal modo le nostre abituali identificazioni e rappresentazioni sono sostituite con il nome, la forma, la rappresentazione e l’identità della divinità. La nostra identità non viene negata, ma si opera una sostituzione; manteniamo la nostra identità, ma dando ad essa un contenuto diverso. Perché si fa questo? Non si crea forse così una nuova illusione, più pericolosa della precedente? Rispondiamo di no, perché la nuova identità mette in evidenza la nostra vera natura, sostituendosi ad una identità fittizia, convenzionale. L’identità abituale è in effetti come una maschera, che nasconde la nostra natura originale, che è quella della divinità da cui ci siamo mantenuti separati identificandoci col nostro “io”. La natura divina è più vicina a noi di quanto lo siamo noi stessi! È sempre stata presente nel più profondo della nostra mente ed è soltanto per il modo abituale di pensare che ci sentiamo diversi da essa. Ecco quindi che individuarci come la divinità corrisponde a una verità profonda; la rappresentazione divina ci permette di riconoscerne la reale presenza e ci protegge dalle illusioni che ce la tengono nascosta.
Contemporaneamente all’esperienza di noi come divinità, si sviluppa l’esperienza del mondo esterno come dimora propria della divinità. Si dispone così di un secondo supporto con la stessa funzione di trasformare le identificazioni illusorie e di superarle; anche questa trasformazione si realizza nella fase di generazione. Le forme simboliche che sono oggetto della nostra meditazione e in particolare la visualizzazione della divinità ci indirizzano e ci conducono nella nostra vera natura. L’identità della divinità che abbiamo sostituito alla nostra e collocato al nostro posto non è steriotipata, immobile, fissa; essa si evolve nel corso della pratica. Le forme visualizzate nella fase di generazione non sono opache, ma diventano gradualmente sempre più trasparenti sino a lasciar filtrare la vera natura della divinità al di là delle forme. La forma e la rappresentazione della divinità non hanno un carattere definitivo. Una rappresentazione, in senso letterale, “rende presente”: la rappresentazione della divinità ce la rende presente al livello della nostra mente abituale. Gradualmente, questo livello si va poi evolvendo verso una presenza della divinità in una esperienza che è al di là della sua immagine e infine al di là di ogni rappresentazione.
Il passaggio dalle forme al loro superamento è indicato nella sadhana con la successione delle sue due fasi: a) di generazione (tib. kyerim), con la forma; b) di perfezionamento ( tib. dzorim), senza forma. Lo stadio di generazione è la premessa, il trampolino, per raggiungere lo stadio di perfezionamento. Quando in questo secondo stadio si realizza compiutamente l’esperienza della vera natura della realtà divina al di là del gioco delle identificazioni, si raggiunge un altro aspetto della pratica, l’unificazione delle fasi di generazione e di perfezionamento (tib. dye-zo sun-yuk). L’apparenza della divinità viene allora sperimentata come presenza senza forma. L’insieme di queste esperienze è una alchimia spirituale. Le due fasi corrispondono ad un processo di dissoluzione e di coagulazione. Durante la fase di generazione si ha dissoluzione della densità, delle identificazioni e rappresentazioni abituali; ed insieme si ha coagulazione della natura risvegliata della divinità nella sua rappresentazione simbolica. Quando cominciamo ad immaginarci come la divinità, dissolviamo l’esperienza che siamo andati costruendoci noi stessi, quella del nostro “io” empirico; nel contempo coaguliamo e rendiamo reale l’esperienza sottilissima della nostra natura originaria come divinità. Nella fase successiva la rappresentazione della divinità si dissolve e si entra nell’ esperienza che è “al di là”. Con la “generazione” la natura della divinità si concretizza in una forma; con il “perfezionamento” questa forma si dissolve e viene superata. È tutta un’esperienza interiore; non si tratta di teoria, ma di qualcosa che si percepisce nella pratica di questo yoga.
5. La Chiara Luce è inesprimibile nella sua essenza, la sua “quiddità” è ineffabile. Ecco perché i metodi pratici che ci aiutano ad avvicinarla utilizzano, come abbiamo visto, supporti simbolici, che sono meno condizionati dalle limitazioni del linguaggio e delle rappresentazioni ordinarie. Ma quelle stesse rappresentazioni simboliche esprimono prospettive solo parziali della natura divina trascendente. Al nostro livello, ciascuna di queste rappresentazioni simboliche costituisce un punto di vista particolare e complementare della natura divina, che, di per sè, sfugge alle nostre possibilità empiriche. Facciamo un esempio. Per disegnare una statua bisogna trasferire un oggetto a tre dimensioni su un foglio che ne ha soltanto due. Nell’impossibilità di rendere perfettamente la realtà tridimensionale, si deve ricorrere ad una rappresentazione piana di questa realtà: la faccia, il profilo, un tre-quarti, l’alto, il basso … Sono tutte soluzioni esatte perché corrispondono a un particolare aspetto della statua e tuttavia sono tutte diverse nella loro resa espressiva. Queste diverse raffigurazioni complementari sono paragonabili ai diversi aspetti della divinità del vajrayana, che esprimono simbolicamente i differenti aspetti dell’assoluto divino, la cui realtà trascendente sfugge alla nostra conoscenza dualistica.
Le numerose divinità del vajrayana corrispondono ad altrettanti punti di vista diversi sulla realtà unica dell’assoluto: Manjushri è il Buddha dell’intelligenza, Cenresi il Buddha dell’amore e della compassione, Sanghye Menla il Buddha guaritore. Anche se si presentano con aspetti diversi, queste divinità esprimono essenzialmente una realtà unica e sono identiche nella loro funzione liberatrice, nel senso che tutte conducono allo stesso tipo di liberazione; si realizza un solo ed identico stato di Risveglio qualunque sia l’ approccio. Pur assolvendo alla stessa funzione, i vari aspetti della divinità offrono, con la loro molteplicità, una ricchezza metodologica incomparabile e qualsiasi tipo di praticante può scegliersi l’immagine più adeguata alla propria ricettività ed affinità. L’importante è riuscire ad individuare la pratica che ci è più adatta, con cui ci sentiamo in armonia, alla quale possiamo dedicarci con pienezza, il più completamente possibile. È quindi necessario verificare se esiste una profonda affinità con la pratica e scegliere infine secondo la propria preferenza. Il maestro Kalu Rimpoce spiegava questo con un esempio: tra i diversi menù proposti da un grande ristorante, ognuno può trovare il piatto di proprio gusto, ma i diversi cibi hanno tutti la stessa funzione, quella di darci il nutrimento. Allo stesso modo, possiamo essere attratti da uno o da un altro aspetto della divinità, ma tutti hanno la stessa funzione che è quella di farci realizzare la Chiara Luce del Risveglio. Le differenti divinità ci conducono tutte alla stessa realizzazione: sono come tante porte che si aprono tutte verso un’unica sala; qualunque porta venga varcata, si entra sempre nello stesso ambiente! La molteplicità dei metodi del vajrayana è la ricchezza dei suoi insegnamenti, che offrono ad ogni praticante la possibilità di trovare lapproccio più adatto. Questa stessa molteplicità peraltro può diventare fonte di dispersione e di “svolazzi spirituali”. Un celebre proverbio tibetano dice: gli indiani praticano una sola divinità e ne realizzano cento, i tibetani ne praticano cento e non ne realizzano alcuna. A parte il tono umoristico, questo proverbio rende bene il concetto che la realizzazione di una sola divinità corrisponde alla realizzazione di tutte, nel senso che la loro natura profonda è la medesima, mentre, impegnandosi superficialmente in numerose pratiche, non se ne realizza nessuna. Capita talvolta di fare i conti con concezioni alquanto materialistiche sulla funzione della divinità, secondo cui ognuna avrebbe una specificità esclusiva. Ci sarebbe, ad esempio, un yidam specifico per la salute, un altro per la compassione, altri ancora per proteggere, per dare potere, ricchezza e cosi via. È vero che ogni divinità ha particolarità caratteristiche, ma sarebbe piuttosto semplicistico ed ingenuo ritenere che sia necessario invocarne una per problemi di soldi, un’altra per evitare incidenti o per superare un esame o risolvere problemi affettivi… Lo si può sempre fare, non c’è niente di male, ma si tratta di un comportamento di basso livello. La nostra personale divinità si distingue dalle altre solo in apparenza e quindi possiamo rivolgerci utilmente ad essa in qualsiasi circostanza; quello che conta è mantenersi fedeli alla pratica di una divinità e fame l’esperienza più profonda, fino alla realizzazione del Risveglio. Queste considerazioni ci aiutano a comprendere la ragione per cui il maestro Kalu Rimpoce insegnava sempre la meditazione o sadhana della divinità; in forma semplice e universale, questo è un metodo profondo che esprime l’essenza del vajrayana. Egli ne ha fatto la pratica di base per i centri di Dharma che ha fondato e per questo anche qui da noi (al centro Karma Ling di Arvillard, in Savoia, n.d.) questa pratica è celebrata tutte le sere. È una meditazione che permette di giungere al cuore degli insegnamenti vajrayana, e può coinvolgere tutte le altre pratiche. Nella tradizione tibetana molti praticanti hanno realizzato il Risveglio meditando esclusivamente su Cenresi. Possiamo farlo anche noi: dipende dal nostro impegno, dalla nostra costanza, dalla nostra intelligenza.
Peraltro, allo scopo di evitare errori è necessario avere prima acquisito una certa e esperienza di samatha-vipassana, avere raggiunta una discreta maturità nel Sentiero, aver compreso con chiarezza la funzione delle visualizzazioni, possedere una qualche consapevolezza sulla vacuità. Tutto questo ci aiuterà ad evitare deviazioni antropomorfiche e gli ostacoli già accennati. Ma non consideratela una regola assoluta: chi ha interessi ed aspirazioni profonde per questo tipo di meditazione può adottarla d’acchito alla sola condizione che disponga di una buona guida. In questo caso, samathavipassana, e tutto il resto potranno svilupparsi nell’ambito stesso della pratica di Cenresi. In conclusione, ogni praticante potrà scegliere seguendo le proprie inclinazioni ed i suggerimenti del proprio maestro di Dharma.
(Trad. dal francese di Vincenzo Piga) https://maitreya.it/wp-content/uploads/2020/02/Paramita-41.pdf