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La nuova Dalai Lama che Pechino teme
Luglio 6th, 2009 by admin

La leader della maggioranza turcofona dello Xinjiang è stata incarcerata e poi espulsa. Gira il mondo diffondendo le ragioni del suo popolo: inaccettabile per la Cina. Rebiya Kadeer, la regina degli Uiguri. La nuova Dalai Lama che Pechino teme. Ex imprenditrice di successo, un tempo utilizzata dal regime come “esempio” di pacifica convivenza oggi è considerata una pericolosa sovversiva, accusata di essere la “mente” delle proteste. dal nostro inviato VINCENZO NIGRO

LONDRA – Rebiya Kadeer, la donna che la Cina ha già trasformato nel suo nuovo “nemico pubblico numero”, tutto sembra fuorché una pericolosa terrorista. Era una donna d’affari di successo, esibita da Pechino come una cittadina uighura capace di lavorare in armonia con le autorità cinesi. Ma se questa imprenditrice prima incarcerata e poi espulsa da Pechino continuerà a mobilitare gli uiguri contro la superpotenza cinese, il suo nome diventerà inevitabilmente sinonimo di quello che il Dalai Lama è per il Tibet o Aung San per la Birmania.Rebiya oggi ha 62 anni; ha iniziato aprendo delle lavanderie che nel tempo sono diventate un impero commerciale dal 30 milioni di dollari. Da più di 10 anni però lotta a tempo pieno per gli uiguri, la maggioranza turcofona dello Xinjiang. Lei lo chiama Est Turkistan, come fanno tutti gli attivisti per l’autonomia della regione.

Inizialmente il suo impero commerciale sveniva sbandierato come una storia di successo: la capacità di una uighuri di far soldi sotto il controllo del governo di Pechino. Fino al 1997 Rebiya era ancora nella manica del regime, orgoglioso di presentare una milionaria di successo tra i trofei del sistema comunista. Faceva parte della Conferenza politica consultiva del Popolo, uno dei “club” in cui siedono i migliori per il regime cinese. Dopo un massacro di uiguri nel 1997 il suo cammino divenne più faticoso: iniziò a chiedere giustizia, a protestare. Finita in carcere nel 1999 per aver rivelato “segreti di stato” a una potenza straniera (stava per entrare in un hotel dove era una delegazione del Congresso Usa), la Kadeer trascorse 6 anni in carcere prima di essere liberata nel 2005, a poche ore dall’arrivo in Cina di Condoleezza Rice. Il regime voleva offrire un gesto al Segretario di Stato americano, e quella donna sembrava del tutto innocua. Da allora però Rebiya, che è madre di 11 figli e ha numerosi nipoti, è diventa un’implacabile attivista per i diritti del suo popolo.

Esiliata negli Stati Uniti, la settimana scorsa è stata in Giappone, dove il governo cinese ha protestato per l’invito. A Londra ha presentato il suo ultimo libro, e fra poco dovrebbe spostarsi in Australia: il film festival di Melbourne proietterà un documentario sulla sua vita realizzato da un gruppo che sostiene la lotta degli uighuri. Anche lì i cinesi sono intervenuti, minacciando il governo di Adelaide di conseguenze politiche e commerciali pesanti: “Conosco tutti i tipi di persone nell’Est Turkistan, conosco i ricchi e i poveri, i potenti e i semplici”, ha detto ieri in un’intervista al Times, “conosco bene il governo cinese, so bene quando loro dicono la verità e quando mentono. Ecco perché adesso mi temono…”.

Nei giorni scorsi l’hanno accusata di essere la mente dietro gli scontri che hanno fatto centinaia di morti il mese scorso nella sua provincia. Lei nega di aver avuto soltanto l’idea, non solo la forza, di poter organizzare una simile rivolta. “Certo, vorrei seguire il percorso del Dalai Lama nella sua battaglia per il Tibet, viaggio in tutto il mondo per dire la verità su quello che fa il governo cinese. Ma io sono diversa dal Dalai Lama: io non voglio aspettare per 50 anni”.

(3 agosto 2009) fonte: http://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/esteri/cina-scontri/leader-uiguri/leader-uiguri.html?rss

L’ANALISI: Tibet islamico, la spina di Pechino

di FEDERICO RAMPINI

LA CINA è stata colta alla sprovvista dall’esplosione di rabbia nel “Tibet islamico”, la vasta regione dello Xinjiang popolata dalla minoranza etnica degli uiguri. Ma la reazione del governo di Pechino sarà più rapida, rispetto al ritardo di almeno 48 ore con cui scattò la macchina repressiva in Tibet nel marzo 2008. Sono sintomatiche le immagini televisive degli scontri a Urumqi (capitale dello Xinjiang): sono tutte riprese della tv di Stato Cctv, eppure sono di una violenza terrificante. Ai telespettatori cinesi non viene nascosto apparentemente nulla: i tg esibiscono sangue a cui l’opinione pubblica non è abituata quando si tratta di “casa propria”.

In realtà quelle immagini sono ben selezionate: si vedono solo dei cinesi Han aggrediti e feriti dai manifestanti. E’ il segnale che Pechino vuole fomentare molto rapidamente la reazione nazionalista degli Han (oltre un miliardo, la schiacciante maggioranza nella composizione etnica della Repubblica Popolare) contro gli uiguri (che sono otto milioni). Tanto più che lo Xinjiang è, proprio come il Tibet, un territorio dove una massiccia immigrazione Han sta alterando velocemente gli equilibri demografici con la popolazione di origine etnica locale.

La questione uigura in Occidente non ha mai avuto la stessa visibilità del Tibet. A causa della loro religione musulmana, gli abitanti dello Xinjiang non raccolgono le stesse simpatie dei buddisti tibetani in Europa e in America. Ma anche questa popolazione turcomanna subisce la dominazione cinese come un’occupazione di tipo coloniale. Le esplosioni di rivolta sono ricorrenti, e un anno fa alla vigilia delle Olimpiadi lo Xinjiang fu il teatro di attentati cruenti, compresa una strage di poliziotti cinesi.

Le organizzazioni indipendentiste – che definiscono lo Xinjiang “Turkmenistan orientale” – godono di importanti sostegni nelle popolazioni vicine: la regione confina con le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, anch’esse di religione islamica. Per Hu Jintao la questione uigura è una spina nel fianco nei rapporti col mondo islamico, dove la Cina spinge la sua penetrazione economica e strategica. E’ anche un imbarazzo serio in pieno G-8: il presidente cinese è venuto a Roma forte di un’economia vigorosa che ha evitato la recessione, e con una forza capitalistica che ne fa un investitore ambìto in tutti i continenti. Ma la carneficina dello Xinjiang alla vigilia del summit fa riesplodere con una visibilità mondiale le contraddizioni interne della superpotenza asiatica: lo squilibrio evidente tra il suo livello di sviluppo e modernizzazione economica, e le rigidità del suo sistema autoritario. (6 luglio 2009)


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