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Condannato a 2 anni un abate buddista: lavorava per combattere l’analfabetismo.
Aprile 4th, 2012 by admin

Lhasa presidiata dalle truppe cinesi

Lhasa presidiata dalle truppe cinesi

Condannato a 2 anni un abate buddista: lavorava per combattere l’analfabetismo.
Khenpo Gyewala guidava il monastero Gyegyel Zogchen e aveva fondato una scuola elementare per i tibetani. Dopo 20 giorni di arresto (illegale) è stato condannato per “attività anti-statale”: la sua sparizione ha provocato un infarto alla sorella, che è morta. Il presidente del Parlamento tibetano ad AsiaNews: “Violenze e arresti sono ormai la norma. Ma noi continuiamo sulla strada indicata dal Dalai Lama”. Dharamsala (AsiaNews) – Dopo 20 giorni di detenzione forzata, l’abate del monastero Gyegyel Zogchen è stato condannato a due anni di detenzione per “attività anti-statale”. Il religioso, Khenpo Gyewala, è molto noto e rispettato per il suo lavoro a favore dell’istruzione e per la libertà religiosa del Tibet: dopo il suo arresto, la polizia gli ha impedito di contattare la sua famiglia e una sorella, Boyang, è morta di infarto per la preoccupazione. Khenpo è “sparito” l’8 marzo insieme ad altri 13 tibetani (rilasciati il 25 marzo): l’arresto, senza alcuna base legale, è avvenuto nella contea di Zatoe, nella provincia del Qinghai. Alcune fonti raccontano al Tibetan Centre for Human Rights and Democracy che un parente dell’abate è stato convocato lo scorso 28 marzo dalla polizia della contea e ha potuto parlare con il religioso per 3 minuti via telefono. Prima di dargli la linea, i poliziotti hanno avvertito il parente di non parlare della sorella morta. Durante il colloquio Khenpo ha chiesto al suo parente di “controllare la scuola Monsel”, l’istituto da lui fondato per combattere l’analfabetismo fra i tibetani. L’abate ha poi aggiunto di aver subito “enormi difficoltà” durante la sua detenzione, che “si sono interrotte” dopo la sentenza. Tuttavia, il monaco non ha saputo dire in quale carcere si trovi e nemmeno la provincia. La Cina continua a rispondere con il pugno di ferro alle richieste di autonomia e libertà religiosa dei tibetani. Lo scorso 22 marzo, le autorità comuniste hanno condannato 11 tibetani coinvolte in marce pacifiche di proteste a pene detentive che vanno dai 3 ai 13 anni di prigione per “aver incitato disordini sociali”. Le proteste di Drango e Sertha, avvenute il 23 e il 24 gennaio scorso, sono state represse nel sangue. Penpa Tsering, presidente del Parlamento tibetano in esilio a Dharamsala, commenta ad AsiaNews: “Gli arresti e le condanne sono diventate una costante, nella storia del Tibet. Il nostro popolo ha il diritto di protestare e lo fa in maniera pacifica: Pechino, però, non ha intenzione di ascoltare la nostra voce. Noi continuiamo sulla strada indicata dal Dalai Lama: cercare l’autonomia religiosa e culturale senza ricorrere alla violenza. La Cina ne pratica anche troppa”.


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