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Siamo a trenta autoimmolazioni in Tibet
Marzo 18th, 2012 by admin

Ill monaco tibetano Lobsang Tsultrim, 20 anni, si è dato fuoco ieri di fronte al monastero di Kirti
Il monaco tibetano Lobsang Tsultrim, che si è dato fuoco di fronte al monastero di Kirti

Un giovane monaco del monastero di Kirti, a Ngaba, e un agricoltore di Rebkong si sono auto immolati in Tibet. In migliaia in piazza chiedono libertà. Aggiornamenti sullo sciopero della fame ad oltranza di tre tibetani davanti al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a New York. Sale così a trenta il numero dei tibetani che a partire dal febbraio 2009 si sono dati fuoco come atto estremo di protesta contro l’occupazione cinese e per lanciare al mondo il loro grido d’aiuto. A Ngaba, nella provincia del Sichuan, un monaco ventenne del monastero di Kirti, Lobsang Tsultrim, si è auto immolato il pomeriggio del 16 marzo. A Rebkong, nella contea di Malho, si è dato fuoco questa mattina Sonam Dhargye, un agricoltore di quarantaquattro anni. Riferisce il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia che Lobsang Tsultrim, già avvolto dalle fiamme, camminava lungo la strada principale di Ngaba quando ha visto i funzionari di polizia dirigersi verso la sua direzione. Ha cercato di allontanarsi ma è stato raggiunto, picchiato e gettato a terra. Mentre i poliziotti cercavano di spegnere le fiamme con un estintore, Lobsang ha continuato ad alzare in aria il pugno, in un gesto spesso usato dai tibetani come segno di invocazione della libertà. E’ stato caricato su una camionetta e portato via. Era il maggiore di quattro fratelli. Era diventato monaco all’età di otto anni. Le misure di sicurezza sono state rafforzate in tutta la città e soprattutto all’ingresso del monastero. Lungo la strada principale è stato istituito un nuovo posto di blocco e i tibetani sono fermati e perquisiti. Nella notte tra il 16 e il 17 marzo a nessuno è stato consentito di entrare o uscire da Ngaba. Nella prima mattina di sabato, 17 marzo, un agricoltore di 43 anni, Sonam Dhargye, si è immolato con il fuoco a Rebkong, la città della contea di Malho, regione del Qinghai, teatro solo pochi giorni fa, il 14 marzo, dell’immolazione di Jamyang Palden, un monaco di trentaquattro anni. Sonam Dhargye è deceduto all’istante. Lascia la moglie e tre figli. Il giorno prima aveva lasciato il suo villaggio e aveva passato la notte in una locanda in città. La mattina seguente, dopo aver pregato di fronte a una fotografia del Dalai Lama e purificato il suo corpo con un bagno, Sonam ha bevuto della benzina e si è dato alle fiamme invocando il ritorno dall’esilio del leader spirituale tibetano. Riferisce una fonte tibetana che prima di darsi fuoco Sonam ha avvolto il suo corpo nel filo spinato per impedire ai poliziotti di impossessarsi del suo corpo. Sembra che l’agricoltore fosse un amico di Jamyan Palden, per ora sopravvissuto ma in gravi condizioni.

Ancora una volta, in segno di solidarietà, migliaia di tibetani sono arrivati nel piazzale antistante il monastero di Rongwo, piazza Dolma, da tutta la città e dai villaggi vicini. Un testimone oculare ha riferito al gruppo londinese Free Tibet che a Rongwo non si era mai vista una folla così numerosa: oltre 6000 persone, di cui 600 venute dal villaggio natale di Sonam Dhargey, hanno voluto rendere omaggio al nuovo eroe. I reparti della Polizia Armata Paramilitare, confluiti nel piazzale su numerosi mezzi, hanno preferito tenersi in disparte. “Stiamo assistendo a una protesta senza precedenti, l’atto di sfida contro il governo cinese più significativo dopo la rivolta di Lhasa del 2008” – ha dichiarato Stephanie Bridgen, direttore di Free Tibet. “Un numero sempre maggiore di tibetani è pronto a sacrificarsi e a correre ogni tipo di rischio”.

Il corpo di Sonam è stato portato all’interno del monastero di Rongwo e cremato. Dopo il funerale, la gente ha lasciato il luogo della cremazione e ha marciato verso il centro della città invocando la libertà del Tibet e il ritorno del Dalai Lama.

Alcune fotografie del corpo carbonizzato di Sonam Dhargey al sito:

http://freetibet.org/node/2599

Fonti: Phayul – Free Tibet – TCHRD

Da New York questa corrispondenza di Piero Verni

New York, 17 marzo 2012

In meno di 24 ore altre due immolazioni sul Tetto del Mondo. Le notizie tragiche che vengono dal Tibet rendono la determinazione di questi tre tibetani che hanno iniziato oggi il loro 25° giorno di digiuno ancora più forte. Sanno di avere sulle loro, ormai magre, spalle una responsabilità pesante. Sono qui a testimoniare, davanti agli occhi di tutti coloro che non vogliono -vigliaccamente- guardare da un’altra parte, l’irriducibilità della questione tibetana. La volontà di questo popolo di non piegarsi di fronte all’arroganza, alla violenza, al cinismo di Pechino. Di quello che, senza esagerazione, possiamo definire uno dei più brutali regimi al potere. Questa Cina nazional-capital-comunista, che si appresta a rinnovare i suoi massimi dirigenti in un clima da congiure di palazzo medievali, avrebbe “diritto” all’appellativo di stato canaglia molto di più di tante altre realtà minori a cui però la invereconda comunità internazionale ha riservato ben peggiore sorte. Molto più dell’Iraq di Saddam Hussein o della Libia di Gheddafi, tanto per fare due esempi. Invece a Pechino tutto è permesso. A Pechino, che massacra le sue cosiddette “minoranze” interne nel modo che sappiamo. Che tortura gli appartenenti al movimento religioso della Falun Dafa nel modo che sappiamo. Che imprigiona i dissidenti nel modo che sappiamo (a proposito, chi parla più del mite Premio Nobel per la Pace Liu Xiao Bo che continua a marcire in galera per reati di opinione?). A questa Cina tutto è permesso. Tutto è scusato. E, simmetricamente, tutto è invece negato a chi osa opporsi al suo osceno sistema di governo e di oppressione. Come i tre tibetani che ho davanti a me, i quali si ostinano a digiunare di fronte a questo simulacro imbiancato delle Nazioni Unite, il cui pavido Segretario Generale non trova un minuto per attraversare la strada e venire a dire una parola di conforto.

Ma questi tre tibetani non si arrendono. Sono sempre qui nelle loro sedie a rotelle, sempre più magri, sempre più emaciati, sempre più vicini al momento di non ritorno. Sempre qui. Con la loro dignità, con la loro fermezza, con il loro coraggio. Sempre qui, con l’unico conforto delle decine di loro connazionali che continuano a venire in un muto, commosso, vibrante, pellegrinaggio. Ieri è tornato il medico che periodicamente li controlla e ha potuto constatare come le condizioni di salute, in modo particolare di Dorje Gyalpo il più anziano, stiano peggiorando. Ma dall’altra parte di questa First Avenue ancora nessun segnale positivo. Ancora nessuna visita che potrebbe scongiurare l’irreparabile.

Piero Verni


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