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La politica del Dalai Lama
Marzo 3rd, 2010 by admin

Sua Santità il Dalai Lama presenta il 30 dicembre 2009 a Dharamsala il nuovo libro per ricordare la figura del Panchen Lama, in occasione del 20° anniversario della sua misteriosa morte.

Sua Santità il Dalai Lama presenta il 30 dicembre 2009 a Dharamsala il nuovo libro per ricordare la figura del Panchen Lama, in occasione del 20° anniversario della sua misteriosa morte.

Dalai Lama vuol dire maestro che è oceano di saggezza. Questo è il nome che da secoli si dà ai capi religiosi e politici del Tibet, considerati incarnazione di Avalokitesvara, il Bodhisattva della compassione. Alla morte di ciascuno di essi un complesso rituale è stato avviato per individuare la sua successiva incarnazione.

Il Tibet è un paese immenso, vasto quanto l’Europa occidentale, che sorge tra le più alte montagne del mondo. Ma proprio per la natura del territorio la popolazione è molto ridotta: solo sei milioni sono attualmente i Tibetani. Un piccolo popolo che deve la sua fama e il suo ruolo nella storia a una precisa ragione: all’aver conservato per un millennio una delle più grandi civiltà umane, quella del Buddhismo Mahayana dell’India, scomparso dall’India stessa a seguito di una lenta decadenza e poi definitivamente dopo l’invasione islamica.
Tra le vette inaccessibili di quello che veniva chiamato il Paese delle Nevi, quella civiltà ha conosciuto nuova vita, facendo del Tibet la terra favolosa dei mistici e dei santi. Una particolare struttura sociale organizzata intorno ai monasteri ha consentito ciò, una struttura facente capo a un monaco rivestito di autorità regale, per l’appunto il Dalai Lama.
Per secoli dunque il Tibet è riuscito a mantenere, nel cuore dell’Asia, un’autonomia dalle potenze circostanti. A ovest, nelle regioni dell’Asia centrale, il Buddhismo veniva sradicato e sostituito dall’Islam.

A sud l’India passava dalla dominazione islamica a quella inglese. A nord si avvertiva la pressione della Russia, il cui potere veniva a estendersi su tutta l’Asia settentrionale. A est si aggrovigliava il nodo che sarebbe risultato poi fatale, quello con la Cina.
L’idea che quest’ultima è venuta coltivando, cioè che il Tibet faccia parte della sua unità territoriale, paradossalmente ha la sua radice storica in ciò che avrebbe dovuto garantirne l’autonomia, cioè la protezione a suo tempo accordata dagli imperatori mongoli. Furono essi infatti a riconoscere l’autorità del Dalai Lama.

Diciamo che i precari equilibri mantenutisi nei secoli crollano infine durante il Novecento, quando nessuna tra le società tradizionali asiatiche riesce più a sottrarsi alle dinamiche poste in atto dalle potenze occidentali.
È la Cina soprattutto ad abbandonare gli assetti che l’hanno caratterizzata per millenni e ad avviare un processo di modernizzazione che la conduce nell’arco di un secolo a diventare quel gigante economico e politico che è oggi, in grado di competere con l’Occidente stesso. Dalla rivoluzione nazionalista alla guerra civile, dalla resistenza contro l’invasione giapponese alla vittoria comunista, dalla Rivoluzione Culturale all’avvio dello sfrenato capitalismo attuale, nell’arco di poche generazioni e al prezzo di costi umani incalcolabili la Cina brucia le tappe che la conducono a un ruolo di primo piano sulla scena mondiale.
Ben difficilmente eventi tanto tumultuosi avrebbero potuto risparmiare una società così fragile come quella tibetana. Poco prima di morire il tredicesimo Dalai Lama formulò un’impressionante profezia: “Dobbiamo essere pronti a difenderci altrimenti le nostre tradizioni spirituali e culturali saranno sradicate. Perfino i nomi dei Dalai lama e dei Panchen Lama saranno cancellati. I monasteri verranno saccheggiati e distrutti, monaci e monache uccisi o scacciati, diventeremo schiavi dei nostri conquistatori, ridotti a vagabondare senza speranza come mendicanti”.

I fatti sono noti. Poco dopo la presa del potere del Partito Comunista, la Cina diede inizio all’invasione del Tibet.
Non fu soltanto occupazione militare: ciò che guidava gli invasori era la convinzione che la religione fosse un male da estirpare, che il popolo andasse liberato dalla soggezione a un’ideologia reazionaria. Ebbe così luogo un vero e proprio genocidio culturale, che si protrasse per decenni, con migliaia di templi e monasteri depredati e distrutti, decine di migliaia di morti, deportazioni di massa, campi di concentramento e torture. La furia distruttiva conoscerà la sua massima intensità durante la Rivoluzione Culturale, quando l’idea di poter plasmare un uomo nuovo in cui fosse cancellata ogni traccia del passato toccherà il culmine.
Mentre tutto ciò accadeva, colui che era stato riconosciuto come il quattordicesimo Dalai Lama, poco più che un ragazzo, dopo aver assistito impotente alla catastrofe del suo popolo, veniva costretto a rifugiarsi in India insieme a migliaia di monaci.

Ha così avuto inizio quella diaspora dei maestri tibetani che ha fornito il contributo più deciso alla diffusione del Buddhismo in Occidente. Lo stesso Dalai Lama si è adoperato instancabilmente in tale direzione, senza peraltro mai dimenticare la grave responsabilità che lo lega al suo popolo.
Dalla sede del governo tibetano in esilio a Dharamsala, non ha risparmiato per decenni alcuno sforzo e ha impegnato tutto il suo prestigio affinché l’opinione pubblica mondiale non dimenticasse il problema del Tibet. Ovunque si sia recato, il ruolo di capo religioso di statura mondiale è stato inseparabile da quello di capo politico di un popolo oppresso.
Grazie alla sua figura poche cause come quella tibetana hanno suscitato così vasta eco e raccolto una solidarietà tanto diffusa. Mentre il Tibet diventava familiare al grande pubblico attraverso il cinema, capi di stato e parlamenti moltiplicavano pronunciamenti in suo favore.

Tutto ciò peraltro lasciava inalterate le condizioni di fatto.
È ben vero che la persecuzione religiosa veniva via via attenuandosi, e alcuni templi erano addirittura restaurati; ma sempre più chiaramente l’annessione appariva irreversibile. L’immenso territorio tibetano è diventato anzi la frontiera su cui scaricare l’immensa pressione demografica della Cina: già oggi i Tibetani sono in minoranza nel loro paese, e il processo di colonizzazione è destinato a proseguire. Si parla di genocidio per diluizione.
Ogni sforzo del governo tibetano in esilio e dell’opinione pubblica internazionale è stato ignorato o squalificato dalle autorità cinesi. Neanche le pressioni dei governi occidentali hanno ottenuto alcun risultato.
La Cina nel frattempo, uscita dall’isolamento del periodo rivoluzionario, si è integrata in tempi rapidissimi nell’economia mondiale, con ritmi di crescita impressionanti: attualmente otto volte superiori a quelli americani o europei. Per questo oggi in Occidente la si teme, perché in grado di inondare i mercati con merci sottocosto; e al tempo stesso si avverte di essere legati da un nesso inscindibile. È la Cina stessa il più promettente dei mercati.
In questo quadro il Tibet si trova a essere in una situazione quanto mai incerta. La causa tibetana oscilla tra la possibilità di cadere nell’oblio, sacrificata sull’altare dei rapporti economici, e quella di riacquistare importanza per l’insorgere di scenari nuovi, in cui l’Occidente impegni con la Cina una qualche forma di confronto militare.
Le azioni di guerra americane in Medio Oriente dopo l’undici settembre possono esser lette come una penetrazione degli Stati Uniti in Asia che aveva come obiettivo indiretto il contenimento della potenza cinese. In una prospettiva di questo tipo il Tibet ha rischiato di trovarsi al centro di tensioni di enorme portata.

La strategia politica che ha guidato le azioni del Dalai Lama come leader politico è a sua volta inscindibile dal suo ruolo di capo religioso.
Il nucleo di questa unione consiste in una scelta di fondo che ha fin dai primi tempi dell’esilio ispirato ogni passo della sua diplomazia: la scelta della nonviolenza. Tale scelta è dovuta non solo al tentativo di evitare un inutile bagno di sangue per la popolazione, ma alla coerenza con il fondamento più profondo dell’identità del Tibet, cioè la religione buddhista. Quando nel 1989 ricevette il premio Nobel per la Pace non ebbe dubbi, nel discorso di accettazione, a riferirsi a Gandhi.
La preoccupazione di suscitare pressioni internazionali affinché il problema del Tibet trovasse soluzione si è dunque saldata con quella di evitare gesti che conducessero a una radicalizzazione dello scontro.
Ciò si è tradotto sul piano religioso in messaggi di profondo valore simbolico, come l’invito a non coltivare sentimenti di odio verso i cinesi fino a quello di considerarli, come nell’etica buddhista, i propri maestri su un cammino di purificazione spirituale. Sul piano propriamente politico la conseguenza è stata la rinuncia a rivendicare una vera e propria indipendenza per il Tibet e la richiesta di uno statuto di autonomia che consenta in primo luogo la conservazione dell’identità culturale e spirituale.

Questa strategia politica, considerata via di mezzo tra l’indipendenza e l’accettazione dello stato di fatto imposto dalla Cina, è stata oggetto di non poche critiche, sia all’interno del mondo tibetano sia in quello dei sostenitori occidentali della causa del Tibet. Due anni fa, prima delle Olimpiadi di Pechino, la rivolta scoppiata nei territori tibetani ha dato nuovamente voce alla richiesta di indipendenza.
Non è difficile obiettare che la scelta di imboccare una via intermedia, in assenza di una posizione estrema che la giustifichi, può essere politicamente debole, e i risultati finora inconsistenti ne sarebbero la dimostrazione. L’aver accantonato a priori la carta dell’indipendenza ha privato le trattative di quel margine di manovra per cui la richiesta dell’autonomia avrebbe potuto essere un ragionevole compromesso: in questo modo il governo cinese ha avuto buon gioco a sottrarsi a qualsiasi seria trattativa.
Per quanto l’autorità del Dalai Lama sia profondamente sentita da tutti i tibetani, si è pertanto prodotto un disagio e presentata la possibilità di scelte diverse. Ma il fallimento della strategia finora perseguita aprirebbe la strada a esiti i cui effetti non sono prevedibili.

Alcune considerazioni a questo punto.
Il Tibet è stato storicamente la cerniera tra le due più grandi civiltà dell’Asia, quelle dell’India e della Cina. Il fatto che oggi tali civiltà riemergano in primo piano sulla scena mondiale torna a conferire al Tibet una centralità simbolica di enorme portata. Si aggiunga che tutto ciò avviene in un contesto in cui l’Asia, in cui si trova ormai più della metà della popolazione mondiale, è non da oggi il continente in cui si giocano gli equilibri del pianeta. Ogni conflitto di un certo rilievo dopo la seconda guerra mondiale ha avuto, e ha più che mai ai giorni nostri, quale teatro l’Asia e può dirsi in qualche misura finalizzato al controllo dell’Asia.
Il Buddhismo è stata la prima tra le religioni universali della storia, intendendo quelle religioni che si sono diffuse al di fuori del contesto socioculturale originario; prima che esperienze analoghe sorgessero dal ceppo del monoteismo ebraico: prima del Cristianesimo e dell’Islam. Per lunghi secoli i monasteri buddhisti hanno costituito la cultura comune dell’India a della Cina, nonché del Giappone, della Corea, dell’Indocina, dell’Indonesia, della Mongolia e di buona parte dell’Asia centrale. Su tutti questi mondi il Buddhismo ha svolto un’influenza indubbiamente pacificatrice, lasciando, laddove poi è scomparso, segni che sono visibili a distanza di secoli nella coscienza collettiva.
L’accanimento con cui la Cina moderna ha perseguitato il Buddhismo, non solo in Tibet ma nel suo stesso territorio, è una feroce rimozione delle sue proprie radici spirituali: per questa ragione la risoluzione del problema tibetano avrebbe un significato profondo per la Cina stessa. D’altra parte il fatto che i monaci esuli dal Tibet abbiano trovato rifugio in India ha un valore simbolico di grande rilievo: il Buddhismo viene nuovamente accolto nella sua terra d’origine, da cui è sparito un millennio or sono. Ora che il Dalai Lama ha la sua sede nella terra di Gandhi e si richiama a Gandhi nella sua azione politica, è come se l’India si riappropriasse di parti essenziali della sua storia e acquistasse coscienza di una forza culturale i cui effetti non possono che essere benefici per il mondo intero

La politica del Dalai Lama può anche essere criticabile alla luce dei criteri politici occidentali, e tali criteri hanno una loro legittimità. Bisogna aggiungere però che ci sono effetti visibili nell’immediato e ce ne sono altri che lo sono soltanto a distanza di tempo.
Oggi Sua Santità sta per compiere settantacinque anni, dopo una vita spesa infaticabilmente, si può ben dire, fin dalla più tenera età, dal momento che a tre anni fu riconosciuto quale reincarnazione del suo predecessore. Alle sue spalle è come se vi fossero secoli e millenni, di fronte un mondo che si trasforma a un ritmo vorticoso, insieme affascinante e inquietante, in cui la stessa condizione umana potrebbe essere coinvolta in forme di esperienza finora sconosciute.
Cogliendo la suggestione di un titolo, sotto il quale furono raccolti suoi colloqui con alcuni tra gli scienziati più noti del nostro tempo, si potrebbe dire che la politica del Dalai Lama consiste nel gettare ponti sottili: tra l’Oriente e l’Occidente, il passato e il futuro, le esigenze concrete e materiali e quelle del destino spirituale. Ponti sottili che, per loro stessa natura, non sempre si mostrano con indubitabile chiarezza; sui quali nondimeno in ogni tempo transitano gli individui e i popoli.

di Claudio Torrero http://www.interdependence.eu/index.php?q=content/panel-33


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