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Kailash, la montagna degli dei
Giugno 25th, 2008 by admin

Pellegrini tibetani in marcia verso il Monte Kailash, la Montagna sacra delle religioni dell'Asia.

Pellegrini tibetani in marcia verso il Monte Kailash, la Montagna sacra delle religioni dell'Asia.

Kailash, la montagna degli dei; di Raimondo Bultrini

L’ asse del mondo è una montagna. Non la più alta sulla terra. Forse non la più bella. Ma la più sacra. La venerano gli hindu, la adorano i buddisti, la divinizzano gli antichi sciamani bon del Tibet, la agognano i giainisti indiani. Chi non ha mai sentito parlare del Kailas forse non conosce nemmeno la leggenda del Monte Meru o Sumeru, il centro dell’ universo primordiale tra cielo e inferi, coi suoi sette continenti disposti come petali di un fiore di loto circondati dai mari e dall’ ultima catena di vette oltre le quali s’ affaccia il vuoto cosmico. Del mitico Meru il Kailas è considerato la manifestazione fisica, affollato di dèi come l’ Olimpo dei greci. La sua cima ha la forma di un tempio, di un fallo, di una cupola, dove gli antichi Puranas collocano il dio Shiva e la sua consorte Parvati uniti in un eterno amplesso. Tra mito e realtà, qui nascono quattro grandi fiumi dell’ Asia, l’Indo, il Sutlej, il Brahmaputra, il Karnali. Ai suoi piedi giace il più alto lago del mondo, il magico Manasarovar, e dalle sue pendici si sono irradiate civiltà antiche come lo Shang Shung, antenato del Tibet. Il Kailas è ancora visibile, a discrezione delle nubi, per i coraggiosi pellegrini disposti a sopportare le fatiche del viaggio e gli umori politici dei governanti cinesi che aprono e chiudono le frontiere di una delle regioni più impervie dell’ Himalaya. Geograficamente appartiene all’ altipiano Gangdisé, a 1300 chilometri dalla capitale Lhasa. Un giro attorno ai suoi 51 chilometri di circonferenza equivale per i devoti delle quattro religioni a ripulire i peccati di una vita per cominciarne una nuova, alleggerita della pesante bisaccia di un vecchio karma incrostato di desideri inesauditi e attaccamenti terreni. Per la spiritualità orientale il karma è il frutto delle azioni passate, ma non è un solco già tracciato per sempre, né un destino indelebilmente scritto nelle stelle. A ogni alba, in ogni istante dell’ esistenza si può intraprendere un nuovo percorso, scalare una nuova montagna. «Vuoi sapere chi eri, guarda chi sei adesso. Vuoi sapere chi sarai, guarda ciò che fai ora», diceva 2500 fa Buddha Sakyamuni. Chi non crede nei miracoli, ma nel potere della mente di trasformare il proprio mondo interiore ed esterno, può leggere Il Monte Sacro di John Snelling, un’istruttiva guida di esplorazioni e pellegrinaggi al Kailas tra pochi giorni disponibile in versione italiana (Il Saggiatore). Il libro si apre col racconto del missionario italiano Ippolito Desideri ai primi del 1700; per i successivi tre secoli, non c’ è stato un viaggiatore che sia tornato a valle senza un’ impressione indelebile. Come scrive Lama Anagarika Govinda nel suo celebre La via delle nuvole bianche: «La fratellanza (tra i pellegrini del Kailas) è simile a un ordine religioso. Anche se privo di voti e dogmi, esso è fonte di ispirazione per il resto della vita, perché (i pellegrini) sono stati faccia a faccia con l’ eternità, hanno visto il paese degli dèi». Il mito si è perpetuato nei secoli per le intrepide prove richieste da questa cima maestosa e simbolica, che non permette di dissacrare il suo punto più alto (6.714 metri), rimasto inviolato per millenni anche da scalatori ambiziosi e atei. Come se i protettori invisibili della sua purezza avessero costruito un’ invalicabile barriera che costringe gli uomini a girargli attorno con fatica e determinazione, compresi gli arroganti e gli scettici. Uno tra tutti, l’inglese Arnold Savage Landor, che tentò di dare il suo nome al Brahmaputra attribuendosi ingiustamente la scoperta delle fonti. Landor scrisse letteralmente col sangue le sue note scientifiche di viaggio, dopo essere stato arrestato per aver trasgredito i divieti delle autorità e aver costretto uno dei suoi portatori tibetani a leccargli le scarpe per chissà quale offesa. Landor è la più clamorosa eccezione tra le figure descritte nel libro, uomini e donne di ogni nazionalità che hanno rispettato il Kailash e la sua sacralità anche se costretti a camuffarsi da fachiri e sadhu ai tempi in cui il monte era interdetto agli uomini bianchi. L’alpinista italiano Reinhold Messner è stato l’unico straniero a completare il periplo della montagna in giornata, contro i tre giorni di rito. Tutti gli altri hanno camminato lenti e tranquilli, inquieti o timorosi, un piede dopo l’altro al suolo e la mente rivolta al cielo. Con le sue storie Snelling mette in guardia però dallo scrutare troppo in alto senza sviluppare lo sguardo interiore, verso quell’ineffabile centro del cosmo identificato nel Kailas ma che risiede in realtà dentro ogni individuo. Dopo aver scalato il Cervino il celebre alpinista inglese Edward Whymper disse: «Più in alto non c’è nulla da vedere; sta tutto sotto». Potrebbe essere il motto dei protagonisti di questo libro, che attraverso i secoli hanno percorso in senso orario il kora, il circuito rituale paragonato a un’ iniziazione tantrica, a «un giro completo della ruota della vita». O anche al ritorno verso quel “«punto immobile del mondo che ruota» descritto da Eliot, al «luogo del cambiamento creativo» indicato da Jung. Le avventure, sempre rocambolesche, a volte tragiche, a volte esilaranti dei protagonisti di questi innumerevoli viaggi alla montagna per secoli proibita agli occidentali, sono curiosamente raccontate da uno scrittore che al Kailas non è mai stato. L’inglese John Snelling, scomparso nel 1991, le ha raccolte infatti a Londra scartabellando tra librerie e archivi della Royal Geographic Society o intervistando alcuni suoi contemporanei al loro rientro, con l’ animo ancora intriso di percezioni spesso «impossibili da descrivere a parole». Tra i numerosi racconti di esploratori, curiosi, santi e avventurieri che hanno documentato questo percorso metafisico e terreno, Snelling assegna un posto particolare all’ esperienza descritta da un saggio indiano, Bhagwan Sri Hamsa, che raggiunse il Kailas nel 1908. Nel suo The Holy Mountain Sri Hamsa offre «il più completo resoconto di un reale evento spirituale di una certa profondità». Molte volte Hamsa aveva tentato di raggiungere il suo guru Dattatreya nella dimensione dell’ estasi visionaria, a prezzo di sacrifici immensi, scalando pendii ghiacciati, schivando valanghe, sprofondando nella neve e nel fango. Quando raggiunse il lago Gauri Kund alle pendici del Kailas sedette su una roccia nell’ attesa di un segno, un darshan del maestro, deciso a illuminarsi o morire in meditazione. Sentì dapprima la sua voce, ma voleva «vederlo» e dopo averlo visualizzato a lungo aprì gli occhi e se lo trovò davanti. Si prostrò ai suoi piedi e «Dattatreya lo sollevò, lo abbracciò e lo accarezzò, poi gli diede un mantra e lo iniziò alla Realizzazione del Sé». Sri Hamsa racconta allora: «Mi ritrovai riflesso ovunque in tutto l’universo! C’ era una totale armonia piena di saggezza, infinito amore eterno e beatitudine eterna! Tutto era verità, saggezza e beatitudine». Bhagwan offrì al maestro tutto ciò che aveva: un solo biscotto. Dattatreya ne mangiò la metà e restituì l’altra metà come prasad (offerta di cibo sacro). Ben pochi tra i pellegrini giunti al Kailas hanno però potuto vantare esperienze analoghe. Il più triste e commovente tra i fallimenti è quello raccontato un secolo fa da un viaggiatore americano di nome Edwin Gilbert Schary, ossessionato fin dall’adolescenza dall’idea di incontrare i «Mahatma del Tibet». Una notte Schary sognò una mappa del mondo e un dito che la attraversava dal Bengala all’Himalaya, indicandogli un percorso e una grotta con i numeri nove e cinque, che lui presumeva indicassero la data del 5 settembre. Correva l’anno 1918. Per l’ennesima volta dopo i suoi precedenti e quasi mortali pellegrinaggi sul Kailas, Schary si camuffò da indiano e affrontò la fatica, il freddo, le tempeste, la fame, i briganti, gli animali selvaggi per raggiungere in tempo il luogo dell’appuntamento coi Mahatma. Niente lì attorno gli ricordava il posto del sogno, finché sulla parete di una gola montana creata da sassi franati ecco finalmente la visione agognata. Ma quale fu la delusione quando, dopo averla raggiunta, scoprì che «era soltanto una grotta, niente di più e niente di meno ed era vuota… Crollai sulla mia coperta con un senso di totale sconforto.» Per tre giorni rimase in questo stato di prostrazione, infine scrisse: «Ho capito che devi cercare in te stesso la liberazione. Ogni uomo costruisce la propria prigione… è l’ agire che ci porta la goia e il dolore». A dispetto della saggezza apparentemente raggiunta, Schary continuò a cercare come un folle vagabondo i Mahatma tra i monti del Tibet. «Sporco, malvestito, ricoperto di piaghe doloranti», racconta un agente commerciale britannico di Gyantse, «Schary si trascinò fino al cancello principale di Gyantse, e parlando indostano chiese alla sentinella di lasciarlo entrare». Credendolo un mendicante tibetano la guardia stava per cacciarlo, finché un ufficiale vide che era davvero un bianco «in condizioni disastrose, infestato da parassiti, denutrito e molto malato». Ma Schary ancora non si era dato per vinto. Pensava di non aver fatto abbastanza penitenze e tentò di raggiungere nuovamente il Kailas attraverso il Kashmir. Fu arrestato e rispedito indietro, tornò a San Francisco con 5 centesimi in tasca, e da allora svanì nel nulla senza lasciare la minima traccia di sé. Snelling addita la sorte del povero Schary ad esempio per quanti intraprendono una ricerca spirituale senza preparazione. Ma quel pellegrino sognatore aveva in fondo usato le stesse parole riferite dal saggio indiano Bhumananda al celebre orientalista e tibetologo italiano Giuseppe Tucci durante il loro incontro al Kailas: «Dio è qui dentro di noi e non lì sulla montagna, la montagna non è che un ammasso di pietre. Le persone non possono elevarsi immediamente ai livelli della nostra contemplazione, la via dello spirito è una ascesa, alcuni iniziano a salire da una grande distanza, altri da più vicino <…& Ma anche se i sentieri sono diversi, il punto d’ arrivo è uno solo». Tucci fu uno dei numerosi studiosi profondamente condizionati dalla mistica della Montagna sacra, più del suo altrettanto celebre precursore, lo svedese Sven Hedin, che scoprì attorno al Kailas la sorgente dell’Indo e del Bramaputra e che si ritirò dal mondo per morire solo e dimenticato dopo le contestazioni di accademici gelosi. L’italiano ebbe più appoggi e fortuna, conosceva la lingua antica degli altipiani e il significato simbolico delle scritture dove si descrivono i poteri delle divinità dei luoghi. Oltre a credere – come sostiene Edward Conze – di essere stato tibetano in qualche vita precedente. Citando Radhakrishna scrisse che «è bello inginocchiarsi dove altri si sono inginocchiati», specialmente in un luogo come il Kailas a suo dire «sacro dagli albori della storia». Peccato che l’umiltà mostrata al cospetto della montagna scomparisse quasi del tutto dopo i suoi trionfali rientri in patria. Nella nostra realtà qui in basso non c’ è montagna capace di trasformare gli uomini, ed è semmai vero il contrario. In fondo le chiusure dei tibetani prima e dei cinesi poi (tranne i monasteri e gli stupa distrutti durante la Rivoluzione culturale) hanno forse risparmiato al Kailas la triste sorte di altri analoghi luoghi sacri del pianeta. RAIMONDO BULTRINI

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