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Perché il buddismo oggi è frainteso?
Settembre 16th, 2012 by admin

Buddha spiegò - precisa Gombrich - che il karma non è il passaggio di un'anima da un corpo all'altro. Invece indicò che la realtà è in perenne mutamento, impermanente, e che di conseguenza non esiste nulla di predestinato.

Buddha spiegò - precisa Gombrich - che il karma non è il passaggio di un'anima da un corpo all'altro. Invece indicò che la realtà è in perenne mutamento, impermanente, e che di conseguenza non esiste nulla di predestinato.

Vi spiego perché il buddismo oggi è frainteso a danno di Buddha

di Raimondo Bultrini , Il Venerdì di Repubblica, 14/09/2012

Scheda del libro: Il pensiero del Buddha, di Richard Gombrich

Un volume sul pensiero dell’illuminato, autore, lo studioso inglese Richard Gombrich che contesta troppe interpretazioni divulgative, e denuncia il tradimento delle idee di un grande saggio molto pratico.
Bangkok. Parlare di un uomo vissuto ben 2500 anni fa, e per di più del suo Pensiero metafisico, è un’opera ardua perfino per accademici di prodigiosa conoscenza delle lingue e della storia. Oggi il Buddha, il Risvegliato, ha condizionato milioni di individui, ispirato il più grande imperatore della storia dell’India di nome Ashoka, convertito moderne star del cinema e del calcio, fatto scrivere decine di libri al suo rappresentante terreno più famoso, il Dalai lama.
Il leader tibetano, certamente, è solo uno dei molti divulgatori postumi di un pensiero con la P maiuscola al quale sono state attribuite frasi, sentenze, leggende e perfino favole delle sue vite passate, di quando offrì il corpo per sfamare una tigre, creò un ponte per far attraversare i viandanti, produsse acqua per dissetare gli assetati. Ma di tutte le scuole religiose, spirituali e filosofiche che sono sorte in suo nome, solo una, la Theravada, è l’oggetto di un libro che viene presentato come l’ultima parola – quasi una sfida al principio dell’impermanenza di cui parla l’autore – in fatto di interpretazione testuale del “vero” Pensiero dell’Illuminato. Il titolo dell’opera, scritta dall’autorevole e brillante accademico inglese Richard Francis Gombrich, è Il Pensiero del Buddha. La casa editrice italiana Adelphi lo ha preferito a quello originale inglese, Cosa ha insegnato il Buddha. Forse la scelta ha tenuto conto del fatto che esiste un’opera fondamentale dallo stesso titolo, edita dal dotto reverendo cingalese Walpola Rahula (1974).
Il professor Gombrich non nasconde di aver usato quel titolo in omaggio allo stile divulgativo e chiaro di Rahula, ma ironizza sul fatto che il suo illustre predecessore avrebbe dovuto chiamare il suo libro Cosa ha insegnato Buddhaghosa, in nome del famoso studioso indiano del V secolo dal quale molti hanno attinto – secondo Gombrich – interpretazioni inaccurate rispetto al vero contesto storico, sociale e religioso. Accusa sfacciata, considerando che il testo di Rahula ricevette subito il sigillo del Journal of the Buddhist Society.
Nell’opera del Professor Gombrich, 283 pagine fitte di note e richiami ad altri autori, c’è l’impellente, quasi esasperata, esigenza di rendere chiari alcuni concetti che – nelle intenzioni del Buddha – concetti non sono, ma spesso semplici allusioni allegoriche al linguaggio dei preti bramani vedici del suo tempo. Quelli usavano ad esempio il simbolo del fuoco perenne per descrivere il veicolo dell’atman destinato alla liberazione, e il Buddha lo usava per invitare a estinguerlo. Fuor di metafora, ad evitare di alimentare il karma della sofferenza aggiungendo combustibile, ovvero le nostre affllizioni mentali di desiderio e ignoranza della legge di Causa ed Effetto.
“Buddha era un uomo pratico, molto pratico, per questo il suo pensiero è paragonabile a quello dei più grandi saggi di tutti i tempi” ci dice in perfetto italiano il professore nella conversazione via Skype dal suo studio di Oxford, dove continua a insegnare Pali, sanscrito e materie orientali, dopo una vita spesa alla ricerca delle fonti originarie e a interpretarle, secondo i parametri di quell’India in fermento del 500 prima di Cristo.
Poco interessano a Gombrich le varie scuole successive al Buddha, come la stessa Mahayana, o Grande Veicolo, che enfatizzò l’altruismo e la compassione insegnati dal Buddha come veicoli di liberazione da ogni limite umano. O come le numerose correnti che credono nella sola Mente creatrice, o nel potere del Nulla cosmico, o in una certa interpretazione fatalista della legge universale di Causa ed effetto, l’Origine dipendente di tutti i fenomeni. L’autore sa che il Buddha non scrisse mai una riga di suo pugno, perché furono i suoi discepoli a diffonderne il pensiero. E sa che una volta morti il maestro e gli studenti, sorsero quasi almeno ottanta scuole divergenti sulla dottrina.
Per questo oggi Gombrich si dice convinto che solo un’attenta lettura storica dei testi originari o primitivi – come li chiama – può rendere giustizia del come e del perché il Buddha riuscì a rivoluzionare alcuni concetti chiave della metafisica indiana del suo tempo, dalle credenze sul risultato indelebile delle azioni virtuose o malvagie, che in parte fu all’origine del più spietato sistema di caste dell’umanità.
Sotto il vaglio enciclopedico di Gombrich passa prima di tutto il termine karma, oggi di gran moda e usato spesso a sproposito. “La grande innovazione del Buddha” sostiene Gombrich “è stata di far dipendere il valore etico non da ciò che è manifesto, ma dall’intenzione”. Ovvero, l’intenzione di fare del bene condiziona l’azione che alla fine produce un buon effetto (dunque un buon karma).
Gombrich ricorda che la scoperta era debitrice di un concetto analogo ma più riduttivo espresso da un contemporaneo del Beato, il fondatore della scuola Jainista Mahavira, secondo il quale il karma dipendeva soltanto dall’azione. In pratica, anche un’azione buona è una fonte di karma e sofferenza se fatta per il piacere. Da qui la nascita dei principi etici di ahimsa, non violenza, dell’uguaglianza tra tutti gli esseri viventi, accolti dal Buddha e poi da Gandhi, ma anche dell’ascetismo estremo, come la mortificazione del corpo (una delle divinità jainiste rimase sull’attenti senza mai sdraiarsi per l’intera vita adulta), e altre pratiche auto-punitive sulle quali il Buddha invece ironizzava.
Il docente ricorda che l’Illuminato commentò pressappoco così la condotta degli asceti jainisti: “Devono invero avere un gran brutto karma per soffrire tanto…”. Che cosa dunque pensava il Buddha di tanto rivoluzionario da sovvertire di lì a due secoli il sistema basato sul potere di interpretazione dei Veda da parte dei bramani, la casta più alta del varna induista?
Tanto per cominciare invitò a disinteressarsi completamente di cosa ci fosse alla base dell’universo e della vita che genera invecchiamento, malattia e morte, a non fare come il folle che – colpito da una freccia – rifiuta di farsi curare finché non conosce il nome o la casta dell’arciere. Tutto questo “lo riteneva inessenziale” – ricorda Gombrich – perché voleva sapere soprattutto cosa fosse alla base dell’agire, l’insieme di opere intenzionali che forma inevitabilmente il karma dell’individuo.
“Per il Buddha” scrive l’autore “l’idea di karma è inestricabilmente connessa a quella di rinascita. Egli vedeva il karma, l’azione intenzionale, come una questione di causa ed effetto. Il karma buono avrebbe prodotto effetti positivi per chi lo compiva, il karma cattivo effetti negativi. Non sarebbe corretto chiamare questi effetti ricompense e punizioni, perché non c’è chi ricompensi o punisca. Gli effetti sono invece prodotti da una legge di natura, analoga per noi a una legge fisica. Per il Buddha, e altri nell’India antica, il modello era l’agricoltura: si pianta un seme, c’è un periodo di tempo durante il quale un qualche processo invisibile e misterioso ha luogo, e poi la pianta spunta e può essere raccolta. Il risultato di un atto intenzionale è infatti chiamato di solito il suo frutto (…). Va da sé che, vista l’infinità di circostanze destinate a intercorrere fra l’atto e il frutto dell’azione, non si può calcolare il tempo che intercorrerà in termini di una o più vite umane”.
Buddha spiegò – precisa Gombrich – che il karma non è il passaggio di un’anima da un corpo all’altro. Ciò presupporrebbe che quell’anima sia eterna, così come eterno dovrebbe essere il Dio creatore del mondo. Invece indicò, senza poter essere smentito, che la realtà è in perenne mutamento, impermanente, e che di conseguenza non esiste nulla di predestinato. Nemmeno l’incontro con il Buddha in persona generò automaticamente l’illuminazione in tutte le persone che andarono ad ascoltarlo. Poté, tutt’al più, gettare il seme di quell’Illuminazione, che per crescere e generare la liberazione dal ciclo del karma (il nirvana) ha bisogno della giusta comprensione, del retto pensiero, della giusta azione, della giusta concentrazione e così via, come indicato nell’Ottuplice sentiero. Solo così si può eliminare dukkha, la sofferenza pervadente, la prima delle 4 Nobili Verità alla base del buddismo, secondo le quali ogni cosa che ha la natura di essere, ha la natura di cessare. La via consigliata per far cessare la sofferenza è quella di estinguerne l’origine, i cinque khandha fisici, le formazioni mentali, o volizioni, che sono il veicolo della rinascita in un mondo di sofferenza.
Per Gombrich il Buddha non si sognò nemmeno di insegnare rituali, o elaborare teorie di trascendenza per spiegare la natura del Vuoto e della materia. “Il rito è anzi uno dei tre grandi impedimenti contro il progresso morale” ci dice l’autore “non ha nessun senso”. Bastava attenersi alle regole (vinaya) della rettitudine, ma con un intento ben diverso da ogni altra religione basata esclusivamente sulla fede, poiché è l’intelligenza – sostiene Gombrich – la caratteristica del discepolo ideale del Buddha, il suo libero arbitrio, la comprensione che ogni individuo è responsabile delle proprie azioni. “Se i miei insegnamenti non vi sono utili, abbandonateli” ripeteva il Beato.
Senza capire la portata rivoluzionaria per quel tempo dell’enfasi buddista sull’amore e la compassione (“possono essere salvifici se coltivati al più alto grado”, spiega l’autore), la credenza nel karma “può facilmente trasformarsi in una sorta di fatalismo, l’esatto opposto di ciò che intendeva il Buddha” assicura Gombrich. “In questa forma perversa della dottrina, la gente dice: Questo è il mio karma, quando ciò che vuole dire, per usare la terminologia originale, è: Questo è il risultato del mio karma“. Tuttavia – aggiunge – ci si può ancora chiedere: “Se siamo noi a creare il nostro futuro, in che misura quel che ci accade è il risultato dei nostri stessi atti in questa vita o in una precedente?”. Il docente risponde, citando i Canoni primitivi del Buddha, che delle otto cause all’origine delle sensazioni (i tre umori fisici, i cambi di stagione, le avversità ecc.) soltanto l’ottava è legata al karma. “In altre parole egli sembra dire che ascrivere esperienze buone o cattive al karma è opportuno solo quando non è disponibile alcuna spiegazione medica o di buon senso”.
E la meditazione?, chiediamo infine a Gombrich. “Il mio scopo non è raggiungere la salvezza” risponde candido. “Voglio capire la storia, da storico delle religioni, non da praticante. Certo devo capire anche la pratica perché la pratica forma la metà o più della religione. Ma mi interesso soprattutto al come è cambiata. Scrivendo sul pensiero è proprio questo che mi interessa. Per meditare bisogna imparare da un bravo maestro. La mia meditazione è insegnare la lingua Pali a chiunque nel giro di 12 giorni…”.

Scheda del libro: Il pensiero del Buddha, di Richard Gombrich,  http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3732365


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