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Dio-denaro spodesta Buddha nel Tibet kitsch dei cinesi
Agosto 26th, 1999 by admin

Repubblica — 26 agosto 1999   pagina 17   sezione: POLITICA ESTERA

LHASA – Una fiumana di pellegrini percorre in senso orario -come vuole la liturgia – l’ itinerario all’interno del grande Palazzo del Potala: una fiumana di turisti lo percorre invece in senso anti-orario, così, in teoria, le due correnti non dovrebbero ostacolarsi. Invece succede sempre, ovunque, nelle strettoie di un’ erta scalinata, all’ ingresso di una delle mille cappelle dove sulle pareti, sugli altari, persino pendenti dai soffitti, l’ occhio che si abitua lentamente alla scarsa luce dei lumi a burro, scorge all’ improvviso una ridda di immagini fantastiche, volti benevoli, ceffi demoniaci. Quando succede che pellegrini e turisti si affollino insieme, l’ ingorgo è tale che provoca l’ immobilità assoluta dei pazienti pellegrini, degli scalpitanti turisti, per la maggior parte cinesi tra i quali spiccano rare teste bionde di alti occidentali. Arrivano finalmente i monaci a regolare il traffico, impartiscono ordini in cinese, la lingua dei turisti che sono anche i colonizzatori, e in tibetano, la lingua dei pellegrini che sono i colonizzati: fate largo! fate largo! E allora turisti e pellegrini riprendono lenti la loro marcia in direzione opposta ma poi, di nuovo, si scontrano in una sacra cappella dove bisogna chinarsi fino a porre il capo sotto la statua di un bodhisattva che elargisce al devoto la benedizione che un monaco per lui invoca a alta voce.

La invoca in cinese, tanto per far prima. Per me chiede la benedizione della Longevità e io invece, come ho sentito che implorava un pellegrino davanti a me, chiedo quella della Grande pace. Il monaco mi sorride, invoca la divinità affinché conceda a me (e a bassa voce mormora “anche al Tibet”) la Grande pace. Ebbene, è stato l’ unico barlume di contestazione che sono riuscita a cogliere in questo paese che in Occidente è diventato il simbolo ultimo di una spiritualità superiore minacciata di annientamento. Poca cosa, lo ammetto. Ma c’ è dell’ altro ? O, come dice Odon Vallet, ormai il lamaismo tibetano ha più devoti in Svizzera e in Dordogna che nel Paese delle Nevi? E potremmo anche aggiungere che ne ha tantissimi anche a Hollywood. “Ora i cinesi ci lasciano fare, dieci anni fa invece c’ è stata una vera e propria persecuzione”, mi spiega un tibetano sulla settantina, modi da gran signore, ex monaco come tanti, visto che fino a quarant’ anni fa il trenta per cento dei tibetani maschi, cioè mezzo milione di uomini, ragazzi e bambini, erano chiusi nei conventi. Ora i monaci saranno al massimo due o tremila, la maggior parte ha gettato la tonaca, la bella tonaca rosso-arancio, alle ortiche: per le persecuzioni dei cinesi o perché, anche qui, il mondo cambia, è cambiato? L’ ex monaco ora si dedica con soddisfazione al commercio, ha un negozio di tappeti nella grande piazza del tempio di Jokhang. E mi parla a lungo del nuovo eroe del Tibet, il miliardario Denba Daji che ha fatto i soldi in Cina, soldi a palate in vari rami di attività, semplicemente comportandosi alla cinese, cercando cioè il Profitto. Daji è della fiera tribù dei Khampa, i pastori-guerrieri dai lunghi capelli acconciati in trecce con turchesi e coralli. Nel 1992, a Canton, si è tagliato i capelli e, da allora, veste normalmente anche se è rimasto tibetano nel cuore. Ora sta portando a Lhasa i capitali che ha accumulato in Cina, ha costruito un albergo dove impiega soltanto personale tibetano, ha aperto una scuola di informatica per giovani tibetani, ha donato al Potala, un tempo la residenza invernale del Dalai Lama, una raccolta di bronzi e ori buddisti di valore inestimabile che lui stesso aveva un tempo sottratto; se non proprio gli stessi oggetti altri di eguale pregio comprati in Nepal, a Singapore, a Hong Kong. Sì, questo Daji una volta era una specie di brigante, un ladro di cavalli, di suppellettili sacre. Il suo primo milione lo ha fatto contrabbandando proprio antichità tibetane. “Ma poi ha capito che i soldi non sono tutto ma servono, servono molto. E lui pensa che servano soprattutto a impedire che il nostro popolo sparisca, sopraffatto dai cinesi” mi spiega il mercante. “La verità – dice – è che abbiamo poche speranze di sopravvivere se non impariamo a diventare competitivi. I cinesi vogliono sempre di più. Noi tibetani invece ci accontentiamo di poco, per questo dobbiamo assolutamente cambiare”. Vorrei incontrare Daji, il nuovo eroe del Tibet competitivo, ma non è a Lhasa. Pare che sia in vacanza da qualche parte all’ estero. Lui può permetterselo, forse è l’ unico cittadino di questo paese che può fare, oggi come oggi, il turista: perché questo paese, inutile illudersi, non è più il Tibet di cui parlava Giuseppe Tucci dove, quando calava la notte, sotto le tende i nomadi discutevano per ore e ore di religione e ogni uomo diventava così un dio, si “indiava”, come diceva Tucci. Anche qui è arrivato il Dio Mercato. Ma sarà questa nuova divinità a salvare i tibetani e il Paese delle Nevi sul quale si è appena aperto un buco dell’ ozono e in cui la rapidità dei mezzi di comunicazione (ti chiamano da Roma, rispondi al tuo cellulare, come se niente fosse) ha fatto sparire l’ ombra di ogni mistero nutrito dalla lontananza? Il mondo ha un Tetto dove modernità e pensiero scientifico che nega ogni magia li hanno portati i cinesi, le cose stanno così e c’ è poco da fare. Ma, mentre ti aggiri per la piazza del monastero di Jokhang, tra devoti che si genuflettono fino a toccare la terra con la fronte, donne accovacciate che lì, anche davanti ai cinesi che fotografano, liberano i loro corpi di feci e urine, ti domandi: se la modernità l’ avessero portata gli occidentali, sarebbe stato meglio? Al monastero di Drepung, sulla parete di faccia del portale, si scorge ancora un volto di Mao tracciato con un pennarello, con sotto la scritta augurale “Diecimila anni!”. Non si capisce se l’ abbiano lasciato lì per culto o come “memento” delle distruzioni dell’ epoca della Rivoluzione culturale, quando le giovani Guardie Rosse tibetane ( di sicuro ex-monaci) gareggiavano con le Guardie Rosse cinesi in vandalismo rivoluzionario. Al Norbu Lingka, un tempo il Palazzo d’ Estate dei Dalai Lama, in un padiglione del grande parco dove visse l’ attuale Dalai Lama fino al giorno della sua fuga in Occidente nel 1959, appeso sopra la porta della sua camera da letto, c’ è un quadro che rappresenta tre gattini che giocherellano con un ranocchio. La mia guida mi racconta che quel quadro è stato regalato al giovane Dalai Lama nel 1957 da un funzionario del Partito comunista dell’URSS in visita a Lhasa. Io allora gli dico che finalmente ho capito perché il Dalai Lama è scappato in India: per non vedersi più davanti quei tre orridi micetti, diamine! Mi guarda sbigottito. No, il mio senso dell’humour è fuori posto. Ma tutto puoi dire del Tibet meno che sia il regno del kitsch. E ora lo sta diventando, inesorabilmente, modernamente, vuoi all’occidentale vuoi alla cinese. I turisti, cinesi e non, sono delle pubblicità ambulanti: non hanno scarpa, maglietta, borsa sui quali non ci sia una “firma”, un marchio di fabbrica, segno, pensano loro, di mondializzazzione, di essere al passo con i tempi. I tibetani invece, pellegrini qui convenuti per la grande festività di Shoton, la Saga dello Yogurt che dura tre giorni, sono vestiti, per lo più, da esseri umani che ancora non sono stati cooptati nel grande mercato mondiale. Addosso ai bambini vedi dei golfini fatti a mano dalle mamme, dalle zie, dalle nonne, con avanzi di lane dai diversi colori, così sono tutti golfini a righe alternate irregolarmente, golfini come quelli che anche da noi si facevano una volta per i più piccoli disfando quelli vecchi e consunti, prima dell’era di Benetton. I turisti (cinesi e no) fotografano i bambini con questi golfini addosso, le madri che sferruzzano sui prati verdi, i padri che bevono birra e giocano rumorosamente a dadi, uomini e donne che defecano. Che bello il Tibet, che pace, che autenticità! Seduto vicino a me, su di una panchina, un cinese dall’ aria importante, occhiali da sole di marca, dice alla sua elegantissima e firmatissima compagna: “Qui sì che varrebbe la pena di investire un po’ di soldi per fare un bel parco a tema”. Sì, il Tibet come grande “parco a tema”. Vanno molto adesso in Cina i “parchi a tema”; l’ idea è più moderna di quella della “riserva”, tipo le “riserve indiane” del Nord America, ormai datate, noiosissime, tutto falso. Invece qui è tutto vero, ma potrebbe diventare falso dall’ oggi al domani perché la distinzione tra realtà e finzione si fa sempre meno chiara. I tibetani già stanno vivendo, desiderosi come sono di modernità, diciamolo pure, di Cina, in una sorta di “esilio mentale”. “Noi ci sentiamo così lontani”, mi ha detto la ragazza che tutte le mattine lava i tovaglioli in una catinella d’ acqua sporca davanti al ristorante dell’ostello dove abito. Ma lontani da dove?. Io so quasi per certo che sono lontana da casa mia. Ma lei a casa sua c’ è. E allora? C’ è qualcosa che non quadra, in lei, in Tibet, in tutte le situazioni così false da sembrare più vere del vero, create dal regista di un “Truman-show” planetario, spettacolo che si potrebbe far sparire da tutti i nostri teleschermi se soltanto si avesse il coraggio di dire che il Re è nudo. Ma non è nudo, porta abiti firmati, il Re del nostro villaggio globale. 2 (fine) – dal nostro inviato RENATA PISU http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1999/08/26/dio-denaro-spodesta-buddha-nel-tibet-kitsch-dei.html


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