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Prima o poi la Cina capirà il Tibet avrà la sua autonomia
Ottobre 26th, 1999 by admin

Repubblica — 26 ottobre 1999   pagina 13   sezione: POLITICA ESTERA

ROMA – Come una ruota tibetana della preghiera, gira la porta a bussola dell’ albergo Parco dei Principi, gira sospinta da mani di fedeli, di curiosi, di clienti ottobrini storditi dall’ annunciata epifania, l’ apparizione del Santo che finalmente si materializza. Entra il XIV Dalai Lama, in saio da monaco buddista, cammina veloce, un gesto di saluto per tutti, una benedizione appena accennata, una carezza su qualche testa chinata a riceverla. Poi sale sempre di corsa nel suo appartamento, ti stringe la mano con impeto e forza, probabilmente per evitare genuflessioni, devoti convenevoli. Fa cenno di prendere posto, è calmo, si presume, interiormente, ma esteriormente dà l’ impressione di andare di fretta, di essere bruciato da una sorta di ansia. Glielo faccio notare, domando se non si tratta di una contraddizione. Risponde che forse lo è ma che lui, il capo spirituale e politico del Tibet, un tempo una teocrazia, oggi niente, ovvero una provincia della Repubblica Popolare cinese, è un uomo che nel XX secolo è entrato di fretta, da “nuovo venuto”, perché ha vissuto infanzia e adolescenza nel Paese delle Nevi, sul Tetto del Mondo “tagliato fuori da tutto”. E ha dovuto imparare tutto il nuovo, quello che c’ è sotto il Tetto, in fretta, per stare al passo con questo secolo che sta finendo e dal quale il Dalai Lama sembra voler uscire con la stessa fretta con cui ci è entrato. Perché, spiega, nel futuro c’ è speranza, cioè nel secolo a venire. Risponde alle domande, ma è un discorso informale, aperto. Accetta obiezioni, chiede suggerimenti, li dà. Cosa ci ha portato di bene e di male il secolo che finisce? “All’ inizio del secolo si pensava che governi centralizzati, autoritari, fossero vincenti, ora si comincia a capire che il fattore chiave è l’ iniziativa umana individuale, si promuovono i diritti umani, si crede nell’ autodeterminazione. Non le sembra meglio? Poi, tra le varie religioni c’ era diffidenza, non si comunicava, invece oggi si comincia a capire che possiamo convivere, cercare insieme l’ armonia e questo è un bene. Ma oggi si pensa anche a proteggere l’ ambiente, una volta non si sapeva nemmeno cosa volesse dire ecologia. Così, credo proprio che ci siano delle buone speranze. Ma lei sa come è ridotto il suo Tibet? Migliaia di colline spogliate di tutti gli alberi, i cinesi stessi colpevoli di questo disastro ora hanno riconosciuto che le inondazioni da loro subite di recente sono conseguenza della deforestazionme selvaggia del Tibet… “Lo so, purtroppo lo so. Ma io parlavo del mondo in genere, non del suo Tetto, della gente in genere, non dei governanti cinesi che però capiranno anche loro, me lo auguro”. Non la stupisce il fatto che ci siano tanti buddisti in Occidente? Si è mai chiesto perché? “Io penso che sia nella natura umana volere sempre qualcosa di nuovo, cambiare vestito, cambiare pettinatura… (ride) provare una nuova religione, non si sa mai potrebbe farmi bene, pensa la gente. E forse è così davvero perché le religioni orientali hanno delle pratiche del corpo, delle discipline come lo yoga, dei metodi di respirazione, il buddismo soprattutto, che fanno bene allo spirito. Ma io ho già detto e continuo a ripetere che è meglio che ognuno segua la propria fede tradizionale. Conosco degli occidentali che hanno abbracciato il buddismo e adesso hanno una gran confusione in testa, peggio di prima”. E cosa pensa del New Age, delle cosiddette Nuove Religioni? “Mi sembra che si tratti di prendere di tutto un po’ e di mischiare cose diverse in un gran calderone. Per carità, penso che sia meglio che ciascuno segua le proprie autentiche tradizioni, magari innovando qualcosa ma non fondando una “nuova religione”, non ha senso”. Che significa innovare una antica tradizione? “Le faccio un esempio. I nostri monaci hanno sempre meditato in isolamento, non sono mai stati al servizio della società anche se il Principio Primo del Buddha è la Compassione. I fratelli cristiani invece si dedicano attivamente al prossimo e noi vogliamo imparare la loro esperienza, la vogliamo fare nostra”. E i nostri monaci cosa dovrebbero imparare dai vostri? “Tante cose, non saprei, forse certe pratiche di meditazione, certe tecniche. Ma non ho approfondito l’ argomento a sufficienza, sono talmente preso da questioni contingenti, purtroppo”. Si riferisce alla situazione del suo paese occupato? “Sì, anche. La Cina si preoccupa di mantenere la stabilità e l’ unità. Ma come si fa a mantenerele con le armi? Io l’ ho già dichiarato più volte, sono per la moderazione, chiedo l’ autonomia politica e amministrativa per il Tibet ma i nostri giovani la vedono diversamente, vogliono l’ indipendenza”. Così nel suo governo in esilio in India, si è formata un’ opposizione alla sua linea? “In un certo senso sì, ma io ho un dialogo con i ragazzi del Congresso della Gioventù Tibetana. Ammiro il loro entusiasmo, il loro coraggio, ma ora penso che ci voglia calma, penso che anche la Cina cambierà, prima o poi”. Che rapporti ha oggi con il governo comunista cinese? “Pessimi, qualsiasi cosa io faccia o dica, loro mi accusano di fomentare complotti contro- rivoluzionari. Ho scritto lettere e lettere a Deng Xiaoping, a Jiang Zemin, mai una riga di risposta, mai”. E Mao, lei lo ha conosciuto personalmente? “Certo, ho vissuto quattro mesi a Pechino tra la fine del 1954 e l’ inizio del 1955 e lo incontravo spesso, avevamo lunghe conversazioni, era un grande leader, un grande rivoluzionario”. Detto da lei “rivoluzionario” è un complimento o un insulto? “Preferirei un altro termine, non credo molto alle rivoluzioni, piuttosto alle evoluzioni, più graduali, più morbide. Però Mao era uno che ha cambiato la Cina alla grande e ce n’ era proprio bisogno di cambiamenti, in Cina come anche in Tibet. Negli Anni Cinquanta Mao era davvero fantastico. Poi è subentrata una fase estremista, distruttiva, non capisco perché. Comunque sono sicuro che se la Cina avesse seguito lo spirito genuino del comunismo di Mao degli Anni Cinquanta, ora sarebbe un paese molto più prospero. E anche col Tibet non ci sarebbero stati problemi, non ci sarebbe nessuna “questione tibetana””. Che effetto le fa di essere qui a Roma, la Città Santa della Cristianità, ospite dell’ ex Partito Comunista Italiano? “Guardi, a me la parola comunismo non fa affatto paura. Come le ho detto prima, Mao agli inizi era un ottimo uomo politico e io devo mettere bene in chiaro che come monaco buddista non posso non avere una mentalità di sinistra. La dottrina sociale e economica del marxismo è stata tradita dai totalitarismi che l’ hanno fatta propria, ma è buona. Sono venuto qui a Roma qualche anno fa e ricordo che allora Achille Occhetto mi diceva che si poneva il problema se cambiare o no il nome al suo partito. E io gli ho detto di non cambiarlo, non è il nome che conta, è la sostanza, è il tipo di leadership collettiva che conta. L’ orrore e l’ errore è il totalitarismo”. Che speranza ha che il totalitarismo sparisca in Cina? “Buone speranze, sparirà. Con il tempo sparirà”. Sta ragionando in termini di secoli? “No, sono un uomo che vive in fretta. Vedo ovunque buoni auspici, il sostegno che sta riscuotendo ovunque la causa tibetana è uno di questi buoni auspici, come lo è il fatto che tanti cinesi, giovani, intellettuali, artisti, stiano cominciando a capire, a contestare. Lei, da quarant’ anni in esilio, pensa di tornare presto sul Tetto del Mondo? “Presto non so, prima o poi sì. Sono ottimista”. E come tornerà? Come cittadino o come Dalai Lama? “Questo lo deciderà il popolo tibetano. Io non voglio essere capo religioso e politico assieme, posso essere l’ uno o l’ altro, non necessariamente svolgere le due funzioni. E posso anche diventare un semplice cittadino tibetano quando il Tibet sarà democratico”. Le piacerebbe che fosse social-democratico? “Ecco, sarebbe proprio l’ ideale”. – di RENATA PISU


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